Tra un falafel e la psicofobia del coronavirus sono arrivata a metà del mio progetto in Israele. Che dire…il tempo è volato.
Continuo il mio lavoro da archeologa a Tel Bet Shemesh con Alessia e Cecilia, le giornate sono lunghe e un po’ faticose, ma ormai i nostri spiriti sono temprati dalle sveglie prima dell’alba e dalle tazze di the che il custode dello scavo ci prepara amorevolmente tutti i giorni (e lo fa come lo faceva mia nonna).
Siamo “passate di grado” e ora ci occupiamo della documentazione delle giornate di scavo e di dirigere gli operai nei vari settori, sempre sotto la supervisione dei seniors, ovviamente.
Gli operai vengono tutti dai villaggi attorno ad Hebron, nei territori dell’Autorità Palestinese. I primi tempi erano molto diffidenti nei confronti di queste tre strambe e rumorose (soprattutto) ragazze ma pian piano la curiosità è subentrata da entrambe le parti. Alcuni parlano inglese, altri solo arabo o ebraico, ma il
linguaggio dei gesti è universale e in qualche modo ci si capisce (da italiane siamo avvantaggiate xD).
Ci sono Abu Ali ed Aref, ex insegnanti di geografia ed arabo che ormai sono diventati alla stregua di due zii per tutte noi. Cercano di insegnarci qualche parola di arabo e noi ricambiamo insegnando loro qualche canzone del vecchio repertorio anni ’60. Sullo scavo si fanno anche qualche scherzo tra di loro e noi teniamo il conto. Al momento Abu Ali è in vantaggio.
C’è Salame (sì, avete letto bene) il custode: gran lavoratore e ometto simpaticissimo, nonché dispensatore di caffè e the alla salvia. Se non fosse per lui moriremmo di sonno appena arrivate ogni benedetta mattina.
C’è Mahmoud, detto “occhi belli”: con lui parliamo in inglese e ci insegna preghiere in arabo. Dice sempre che sono una persona gentile e che sicuramente Allah mi vorrà in paradiso. Se lo dice lui mi fido.
C’è Abdallah: età stimata tra i 79 e gli 84 anni, nessuno ha capito quanti anni abbia. È il più vecchio del gruppo e lavora più di tutti gli altri messi assieme. Abdallah tutto può: spiccona, svuota secchi, sposta massi che richiederebbero la ruspa, scava nei cunicoli senza l’ausilio della lampada a led…e trova granate ( quella volta ci siamo prese un colpo e lui rideva come un matto).
C’è Abu Daoud: sordomuto e laurea ad honorem in archeologia. Ha un occhio per gli strati che neanche Andrea Carandini potrebbe avere. Riesce a trovare un nocciolo d’oliva carbonizzato in mezzo ad un mucchio di terra dello stesso colore. È un mito, punto.
C’è Yunis: mi ha soprannominata “Martina Clementina”, secondo Alessia e Cecilia è innamorato di me xD.
Abbiamo poi un Mustafa, Quattro Ahmed, altri due Mahmoud e…altri di cui non so il nome e che hanno soprannomi personalizzati.
Ormai ci hanno prese in simpatia e, se le prime volte si limitavano ad un salute veloce e sfuggente, ora la mattina ci riservano sorrisoni e strette di mano.
Ci raccontano le loro storie, ci parlano delle loro famiglie, continuano ad invitarci a cena per conoscere le loro famiglie, ogni tanto ci portano cibo e dolcetti.
Gli scambi culturali non sono mai stati così belli.
Martina Francucci, volontaria ESC del Progetto “Dig in, Community Out”